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Una folla di quasi un migliaio di persone si era raccolta davanti alla residenza del primo ministro, applaudendo e agitando striscioni e cartelli scritti a mano, in francese e in inglese, per dare il benvenuto a Charles Sarveux che tornava a casa dall'ospedale. I medici avevano insistito affinché vi si facesse trasportare a bordo di un'ambulanza, ma lui aveva respinto recisamente il consiglio ed era salito nella berlina ministeriale, impeccabilmente abbigliato con un completo nuovo fiammante. Le mani deturpate dalle cicatrici erano coperte da un paio di guanti di qualche misura più grandi.
Uno dei consiglieri del suo partito gli aveva suggerito di lasciarle in vista bendate, per suscitare una più intensa reazione emotiva nel pubblico, ma Sarveux non era uomo da far ricorso a tali meschini espedienti politici. Lo tormentavano fino al limite della sopportabilità i dolori al fianco, e le braccia, rese rigide dal tessuto cicatriziale, gli facevano un male atroce tutte le volte che tentava un movimento. Era contento che il pubblico e i giornalisti fossero lontani, almeno, tanto da non poter notare il sudore che gli grondava sul viso mentre sorrideva, con le labbra tirate, e rispondeva con la mano agli applausi.
La macchina varcò il cancello e si fermò alla breve scalinata che conduceva all'ingresso principale. Danielle corse alla portiera e la spalancò.
«Ben tornato a casa, Charles...»
Le parole le si bloccarono in gola non appena scorse la faccia stravolta dalla sofferenza e grigiastra.
«Aiutami a entrare», le sussurrò.
«Lascia che chiami un poliziotto...»
«No», la interruppe. «Non voglio che mi credano un invalido.»
Si girò di fianco sul sedile posteriore e mise i piedi per terra, col corpo metà dentro e metà fuori dell'automobile. Si concedette un attimo per farsi forza, poi cinse con un braccio la vita della moglie e si rizzò, traballando.
Per poco Danielle non cedette sotto il suo peso. Le ci volle tutta la sua forza per sostenerlo. Mentre salivano adagio i gradini, sentiva quasi fisicamente le ondate di dolore che emanavano da lui. Sulla soglia, Charles Sarveux si girò, rivolse il sorriso per cui era famoso al gruppo dei giornalisti fermi sulla rampa e li salutò, in segno di vittoria, con la mano chiusa e il pollice verso l'alto.
Dopo che il portone si fu chiuso alle sue spalle, la volontà ferrea che lo aveva animato sino a quel momento cedette di colpo e l'uomo incominciò ad afflosciarsi sul tappeto. Un poliziotto fu svelto a spingere Danielle da parte e a sorreggerlo passandogli le mani sotto le ascelle. Comparvero come per incanto un medico e due infermiere che lo trasportarono su per le scale fino alla sua stanza.
«È stata una pazzia il voler fare l'eroe», lo rimproverò il medico, dopo che l'ebbero messo a letto. «La frattura è tutt'altro che rinsaldata. Ha corso il pericolo di provocare grossi guai, che avrebbero ritardato la sua completa ripresa.»
«Un piccolo rischio per dimostrare al popolo che il suo capo non è diventato un vegetale», replicò Sarveux, sorridendo debolmente.
Entrò Danielle e sedette sull'orlo del letto. «Hai ottenuto l'effetto che volevi, Charles. Adesso non c'è più bisogno che ti sforzi.»
Lui le baciò la mano. «Ti prego di perdonarmi, Danielle.»
Lo guardò, stupita. «Perdonarti?»
«Sì», le disse così piano che gli altri presenti nella stanza non lo poterono udire. «Avevo sottovalutato la tua intelligenza. Ti avevo sempre giudicata una ragazza senz'altro scopo nella vita se non quello di coltivare la tua bellezza e d'indulgere in fantasie da cenerentola. Ma sbagliavo.»
«Non credo di capirti...» disse la donna, incerta.
«In mia assenza ti sei messa nei miei panni e hai preso in mano le redini della carica con dignità e risolutezza», affermò Sarveux, in tono sincero.
«Hai dato veramente la prova che Danielle Sarveux è la First Lady del Paese.»
Danielle si sentì all'improvviso sopraffatta da un'immensa pena per lui.
Sotto certi aspetti era un uomo perspicace, sotto altri sembrava addirittura ingenuo. Soltanto adesso mostrava di apprezzare le qualità della moglie, e tuttavia ne interpretava i desideri e le ambizioni in un senso che non avrebbe potuto essere più sbagliato. Non si rendeva conto che la donna che lui s'immaginava era un'illusione, non riusciva a sondare la profondità dell'inganno. Quando fosse arrivato a conoscerla veramente, sarebbe stato troppo tardi, pensò Danielle.
La sera dello stesso giorno, quando Henri Villon andò a fargli visita, Charles Sarveux era seduto sul divano, con indosso una veste da camera, e seguiva un programma televisivo. Sullo schermo si vedeva un telecronista al centro di Quebec Street, circondato da una massa di persone plaudenti.
«Grazie per essere venuto, Henri.»
Il ministro degli Interni lanciò uno sguardo allo schermo. «È fatta», annunciò, tranquillo. «Il referendum per la completa indipendenza è passato. Il Quebec è una nazione.»
«Adesso inizia il caos», replicò Sarveux. Premette il pulsante OFF sul telecomando e lo schermo si spense. Poi si rivolse a Villon, indicandogli una poltrona. «Tu come la vedi?»
«Io sono sicuro che la transizione si svolgerà senza scosse.»
«Pecchi di eccessivo ottimismo. Fintanto che non saranno indette le elezioni per insediare il nuovo governo, il parlamento del Quebec sarà in subbuglio, fornendo così un'occasione d'oro al movimento clandestino terroristico di uscire dalle fogne e introdursi di forza nel gioco di potere.» Scrollò malinconicamente la testa. «La morte di Jules Guerrier non sarebbe potuta avvenire in un momento peggiore. Noi due insieme avremmo potuto collaborare per spianare la strada. Ora non so davvero come andrà a finire.»
«Non vorrai sostenere che il vuoto lasciato da Jules non possa essere colmato?»
«Da chi? Da te, forse?»
Villon indurì lo sguardo. «Nessuno è più qualificato di me. La mia attività è stata strumentale nel mettere in piedi il referendum. Ho l'appoggio dei sindacati e degli istituti finanziari. Sono un capo partito che gode di prestigio e, quel che conta soprattutto, sono un franco-canadese rispettato da tutto il resto del Canada. Il Quebec ha bisogno di me, Charles. Mi candiderò alla presidenza e ne uscirò vincitore.»
«Quindi sarà Henri Villon a guidare il Quebec fuori del deserto», commentò causticamente Sarveux.
«La cultura francese è più viva oggi di quanto lo sia mai stata. È mio sacrosanto dovere alimentarla.»
«Smettila di sventolare i gigli d'oro, Henri. Non ti si addice.»
«Nutro un affetto profondo per la terra dei miei avi.»
«Tu nutri un affetto profondo soltanto per Henri Villon.»
«Hai un'opinione così bassa di me?» ringhiò il ministro.
«In passato avevo un'opinione molto alta di te. Ma ho visto come l'ambizione cieca ha trasformato un idealista sincero in uno scaltro e subdolo intrigante.»
L'altro lo fulminò. «Credo che faresti bene a spiegarti più chiaramente.»
«Tanto per incominciare: dimmi il motivo per cui hai tagliato l'erogazione di energia a un terzo degli Stati Uniti, nella centrale di James Bay.»
Villon si rifece impassibile. «Ero convinto fosse necessario. L'interruzione doveva servire di monito agli americani, affinché non intervenissero nelle questioni che riguardano il Quebec.»
«Chi ti ha suggerito un'idea così pazzesca?»
Il ministro gli lanciò un'occhiata stupita. «Tu, naturalmente.»
L'espressione di Sarveux diventò impenetrabile.
Tutt'a un tratto, Villon scoppiò in una risata. «Davvero non te lo ricordi?»
«Ma che cosa dovrei ricordare?» chiese l'altro, meccanicamente.
«In ospedale, dopo l'incidente aereo, eri in stato confusionale per via degli anestetici. Deliravi dicendo che il Canada sarebbe stato in grave pericolo se le persone sbagliate avessero scoperto il punto debole nella sala di controllo a James Bay. Il senso delle tue parole era vago, però incaricasti Danielle di riferirmi che dovevo consultare Max Roubaix, l'uomo che assassinava le vittime con la garrotta, più d'un secolo e mezzo fa.»
Sarveux lo ascoltava senza dire parola, indecifrabile come una sfinge.
«Una sciarada maledettamente ben congegnata, tenendo conto che proveniva da un cervello in quelle condizioni», continuò Villon. «Ci misi un bel po' prima di stabilire un parallelo tra l'arma preferita di Roubaix e un capestro energetico. E te ne sono grato, Charles. Involontariamente, mi hai dimostrato com'è possibile far ballare gli americani al suono della nostra musica semplicemente girando un interruttore.»
Sarveux tacque un momento, poi alzò gli occhi in faccia a Villon e dichiarò: «Non involontariamente».
Villon non fu pronto a capire. «Come hai detto?»
«Non farneticavo quando dissi a Danielle che avresti dovuto consultare Max Roubaix. Soffrivo moltissimo, però la mia mente era lucida in quel momento.»
«A che gioco stai giocando, Charles?»
Sarveux lo ignorò. «Un vecchio e carissimo amico sosteneva che avresti tradito la mia fiducia e la fiducia che il popolo canadese aveva in te. Io non riuscivo a convincermi che tu fossi un traditore, Henri, però dovevo averne la certezza. Hai abboccato all'amo e hai minacciato gli Stati Uniti col ricatto energetico. Un grave errore da parte tua metterti contro la superpotenza della porta accanto.»
Villon storse le labbra in un ghigno malvagio. «Dunque t'illudi di sapere qualcosa! Al diavolo te e al diavolo gli Stati Uniti. Fintante che il Quebec manterrà il controllo sul San Lorenzo e sulla centrale idroelettrica di James Bay saremo noi a imporre un cambiamento agli americani e al Canada occidentale. Con tutte quelle loro prediche da bacchettoni sui diritti e sulla giustizia sono diventati i buffoni del mondo intero. Si crogiolano compiaciuti nella loro stupida moralità, curandosi unicamente dei patrimoni privati e dei conti in banca. L'America è una potenza in declino. L'inflazione manderà in rovina il suo sistema economico. Se osassero tentare di strozzare il Quebec decretando sanzioni ai suoi danni, noi risponderemmo tagliando l'erogazione di energia elettrica.»
«Propositi audaci», commentò Sarveux. «Però finirete con lo scoprire, come è toccato a molti altri, che sottovalutare la risolutezza degli americani non conviene mai. Quando si trovano con le spalle al muro, hanno l'abitudine di uscire dalla morsa lottando strenuamente.»
«Ora non ne hanno più il fegato!» sbuffò Villon, in tono sprezzante.
«Sei uno stupido!» Sarveux non poté reprimere il brivido freddo che lo percorse in tutto il corpo. «Per il bene del Canada io ti smaschererò e ti spezzerò.»
«Non hai la benché minima prova contro di me. No, Charles, tra poco i bastardi anglofoni ti cacceranno via a calci dal posto che occupi, e io farò in modo che tu non sia persona gradita nel Quebec. Per te è venuta l'ora di svegliarti e di renderti conto che sei un uomo senza patria.» Villon si alzò in piedi, tolse dalla tasca interna della giacca una busta sigillata e la lasciò sgarbatamente cadere sulle ginocchia di Sarveux. «Le mie dimissioni da ministro.»
«Accettate», rispose Sarveux, con salda determinazione.
Villon non volle andarsene senza lanciargli un insulto finale. «Sei un disgraziato che fa pietà, Charles. Finora non te ne sei reso conto, ma non ti rimane più niente, neppure la tua carissima Danielle.»
Sulla soglia, si girò ancora una volta per un'ultima occhiata a Sarveux, aspettandosi di vederlo sopraffatto dalla disperazione e dal peso schiacciante della disfatta, senza più sogni né speranze. Invece vide un uomo che, inesplicabilmente, sorrideva.
Villon si recò direttamente nel suo ufficio al palazzo del parlamento e incominciò a sgomberare la scrivania. Non vedeva ragione di attendere fino al mattino e sopportare una quantità di addii da parte di persone per le quali non nutriva né rispetto né simpatia.
Il suo più stretto collaboratore bussò ed entrò. «Ci sono parecchi messaggi che lei...»
Villon lo interruppe con un gesto della mano. «Non mi riguardano più. Da un'ora ho cessato di essere il ministro degli Interni.»
«C'è una comunicazione del signor Brian Shaw che sembra piuttosto urgente. E anche il generale Simms ha tentato di mettersi personalmente in contatto con lei.»
«Sì, per la faccenda del trattato nordamericano», disse Villon, senza alzare gli occhi. «Probabilmente mi pregano entrambi di assegnargli più uomini e più equipaggiamento.»
«A dire il vero si tratta d'una richiesta diversa. Vorrebbero che la nostra Marina scortasse la nave americana fuori della zona in cui si trova il relitto dell'Empress of Ireland.»
«Compili le carte necessarie e le firmi a mio nome. Poi si metta in comunicazione col comandante navale del distretto di San Lorenzo e lo incarichi di accogliere la richiesta.»
«Aspetti!» gridò Villon. «Un'altra cosa. Informi il generale Simms e il signor Shaw che il Quebec, nazione sovrana, non consente più intrusioni britanniche nel proprio territorio e che, a partire da questo momento, debbono smettere definitivamente ogni forma di sorveglianza. Quindi invii un messaggio al nostro amico mercenario, il signor Gly: un lauto premio lo attende se darà un eclatante addio alla nave della NUMA e al suo equipaggio; di certo lui capirà.»